“La vittima imperfetta”
Non avrei mai immaginato, in qualità di difensore di una giovane donna, vittima di violenza sessuale, di doverla difendere fuori dal processo, di fronte al modo in cui la stampa locale ha frettolosamente affrontato la sua vicenda, all’indomani della lettura del dispositivo della sentenza che ha condannato il suo aggressore a quattro anni e quattro mesi di reclusione, all’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici e all’interdizione perpetua dall’esercizio delle funzioni di tutela e curatela; condanna, pronunciata all’esito del dibattimento, per tutti i reati di violenza sessuale dal marzo al maggio 2019, posti in essere nei locali dell’Azienda Sanitaria Toscana sud est.
Non si farà alcun accenno al dramma individuale vissuto dalla giovane vittima, apparsa facile preda di condotte oltraggiose, aggressive ed insidiose in un ambiente, quello dell’Azienda Sanitaria Toscana sud est, sul quale la ragazza aveva riposto il massimo affidamento nell’intraprendere le sue prime esperienze di carattere lavorativo.
Particolare scrupolo è stato dedicato dal 2019 ad oggi, ad evitare qualsiasi interessamento mediatico per la ragazza e per la sua personalissima sofferenza.
La vita della vittima di violenza sessuale viene stravolta e segnata per sempre dall’offesa subita al corpo ed alla dignità ed è perciò particolarmente vulnerabile ed esposta al giudizio altrui; niente e nessuno infatti riuscirà a riparare il danno arrecatole: morale, biologico, esistenziale e soprattutto allo svolgimento delle relazioni sentimentali e sessuali, realizzatrici dell’essere umano. Ragion per cui è dovuto il massimo rispetto della sua riservatezza ed al suo dramma per non sottoporla al perpetuarsi dello stigma e dell’identificazione in quel ruolo.
Nemmeno adesso si parlerà di questa donna.
Si parlerà invece di tutte le donne che si trovano ad affrontare un processo per violenza sessuale nel 2022, a 25 anni dalla riforma del codice penale che ha introdotto il reato di violenza sessuale come delitto contro la persona e non più contro la morale e dopo tanti processi per stupro che le hanno viste sul banco degli accusati, anziché vittime del più odioso dei delitti contro una donna.
Una legislazione illuminata, nazionale, internazionale e comunitaria, oggi non lo consente più. Tuttavia, una cultura patriarcale millenaria, trasversale a tutte le civiltà, è dura a morire ed ogni volta il rischio di portare la donna sul banco degli accusati è dietro l’angolo.
La gravità dei fatti oggetto del processo, svoltosi avanti il Tribunale di Arezzo avrebbe meritato diversa puntualità e precisione, acquisizione di dati e verifica degli stessi, sensibilità e consapevolezza del ruolo dell’informazione, onde evitare il consolidarsi nel senso comune di stereotipi e pregiudizi che a molti livelli istituzionali e sociali si cerca di sradicare, per una crescita delle relazioni umane improntate al rispetto dei diritti fondamentali.
L’informazione è stata parziale e inesatta: nessun riferimento alla vittima di un reato così oltraggioso.
L’informazione ha riprodotto solo la tesi della difesa del condannato.
L’imputato, quando depone nel processo, non ha l’obbligo di dire la verità; la persona offesa, invece, viene sentita come testimone e come tale depone sotto giuramento, impegnandosi a dire la verità.
L’informazione mediatica incompleta che non dà conto della serietà e della gravità del fenomeno sociale della violenza sessuale e del dramma di chi lo subisce, può tradursi in veicolo di pregiudizi e stereotipi ed in definitiva scoraggiare le donne a denunciare.
La violenza sessuale non viene denunciata dal 93% delle donne che l’hanno subita e questo perché alle donne non si crede.
Non si tratta della parola dell’una contro la parola dell’altro. Di una versione contro l’altra. La parola della vittima è la regina delle prove, che necessità di attento vaglio quando ella è costituita parte civile; nella generalità dei casi i testimoni non sono presenti alla violenza sessuale. La vittima che subisce violenza ha diritto ad essere ascolta senza subire il pre-giudizio che possa dire il falso; in nessun altro delitto ci si pone questa domanda, pensiamo al furto, alla rapina, al sequestro di persona, sempre e solo nella violenza sessuale e nei reati di genere, ci si chiede se la donna si sia inventata tutto. Le donne ancor oggi, devono difendersi dallo stereotipo che le accusa di fingersi vittime di violenza sessuale, in quanto bugiarde e maliziose per natura; meglio sarebbe che tacessero; difendersi dal mito delle false denunce (Dr. Fabio Roia, Tribunale di Milano).Veicolare acriticamente stereotipi come quello secondo cui la vittima per essere tale debba presentare lividi, ferite o avere gli indumenti strappati, segno di una strenua resistenza opposta all’aggressore, vuol dire banalizzare il fenomeno e la sua complessità, tacere la diversità delle reazioni umane possibili di fronte alle aggressioni, pretendere che la vittima per essere creduta, debba sanguinare ed essere lacerata, altrimenti è consenziente e se denuncia, dice il falso.
Gli studi della gran parte dei casi di stupro, condotti da decenni, dimostrano che è commesso all’interno di luoghi protetti, in cui le vittime, spesso in condizioni di minorata difesa (perché hanno una disabilità, perché sono fisicamente più piccole, eccetera), sono talmente spaventate o sopraffatte da non riuscire a reagire (fenomeno presente in tutti i mammiferi, si chiama tanatosi), motivo per il quale mancano lesioni refertabili a supportare il racconto di un fatto avvenuto senza testimoni.
Se non hanno urlato e nessuno le ha sentite, sono bugiarde. La vittima, come scrive la Giudice Dott.ssa Paola Di Nicola, deve essere perfetta e corrispondere allo stereotipo che la stampa locale ha veicolato.
Occorre ricordare che quanto aspetta la donna dopo la denuncia, è un vero calvario che nessuna vorrebbe sopportare, se quanto ha subito non fosse vero.
La prima stazione della via crucis è dimostrare che sta dicendo la verità, mentre il suo corpo e la sua mente sono feriti, violati e umiliati; la seconda ripetere più volte la narrazione della violenza ed ogni volta riaprire la ferita; la terza fare i conti con se stessa: con la vergogna, la rabbia di non essersi saputa difendere, il senso di colpa, il sentirsi sporca; la quarta subire l’accusa immancabilmente: era d’accordo; era vestita in modo provocante, appartiene al tipo di donna che ha già avuto rapporti sessuali anche completi; era il tipo che ci stava, l’ha provocato; la quinta ricordare immagini, suoni, sapori, odori che ritornano, flashback insidiosi e intrusivi che le impediscono di fidarsi degli altri, di uscire, di vivere le relazioni senza paura, ma con diffidenza, percepire la sessualità come sporca, violente, umiliante.
Oggi però un’imponente legislazione nota, o almeno dovrebbero esserlo, a chi fa cronaca giudiziaria, richiede a tutti coloro che rivestono un ruolo educativo, sociale e culturale di fare informazione sui fatti di violenza con la consapevolezza della funzione che ciascun soggetto riveste. In particolare la stampa, che a differenza degli altri media possiede gli strumenti per informare in modo puntuale ed approfondito, è in grado di promuovere atteggiamenti critici, smascherare stereotipi, sottovalutazione e banalizzazione di fatti gravissimi, aiutare le vittime di violenza ad avere fiducia nelle istituzioni ed incoraggiarle a denunciare, senza essere paralizzate dalla paura di non essere credute, quando il loro aggressore è un incensurato padre di famiglia.
Foiano della Chiana 29 marzo 2022 Avv. Edi Cassioli